Aubenas: Full Moon / Black Out: primo tentativo

Rivendicazione di un’attacco incendiario contro un trasformatore elettrico

Fra di noi, ci sono a volte dei dubbi. Certi, certe, ne hanno pochi. Altri/e, nessuno.

Assumeremo le conseguenze di un black out a grande scala? I morti, il caos che questo provocherebbe? Saremmo noi, noi stessi/e, capaci di sopravvivere ad una tale trasformazione del mondo? Forse no.

Ma è ancora più insopportabile lasciare il mondo così com’è, sottomettersi al ricatto per cui sarebbe ancora peggio se le istituzioni umane e tecnologiche non fossero qua a dirigere le notre vite al posto nostro, che accettare di prendere dei rischi agendo.

Non si tratta di far tacere i nostri eventuali dubbi. Si tratta di riuscire ad agire lo stesso. Di capire che se le nostre azioni hanno degli impatti, provocano senza dubbio delle ferite a degli esseri che non abbiamo preso di mira, la nostra passività è altrettanto assassina.

Che i famosi ospedali, formicai in cemento dove si ammucchiano i corpi devastati e i buoni sentimenti, che bisognerebbe proteggere ad ogni costo perché permettono di «salvare delle vite», hanno bisogno per funzionare di un rifornimento di elettricità e di altre materie prime, che, loro, senza dubbio uccidono.

La pace tecnologica data in flebo alle masse è una menzogna. Il mondo connesso si costruisce su una fossa comune e si nutre di morti e di distruzione. E le belle immagini di tablet nelle scuole e nelle case di riposo non vi cambieranno nulla. Gli aperitivi su Skype hanno il gusto del sangue. I dubbi che possiamo provare sono le tracce della mascherata umanista e statale che ci racconta che questo sistema ciò è indispensabile. Che tutto va nel modo migliore, nel migliore dei mondi, e che sarebbe intollerabile e irresponsabile che degli individui agiscano in maniera egoista, nuocendo a quello che è comune. Non è il momento di un dibatito sull’egoismo. La nostra volontà è spezzare il mito secondo il quale il fatto di lasciar fare non ha conseguanze. Quello che è comune non ci interessa per niente, ma è giusto menzionare che esso si limita ad una certa parte della popolazione umana, di certo senza toccare l’insieme degli esseri che vivono su questo grosso sasso che chiamiamo Terra.

Ci sembrerà sempre preferibile agire con degli eventuali dubbi, che lasciare questi ultimi nutrire un sentimento d’impotenza.

Perché dalla nostra impotenza sorgerebbe la nostra morte, e che quello che vogliamo al di sopra di tutto è vivere. Vivere restituendo i colpi che ci vengono portati. Vivere senza la mediazione umana e tecnologica, che si impone fra di noi e il resto del mondo. E quando diventiamo coscienti/e del nostro condizionamento, quando pensiamo a tutto l’orrore che questo mondo genera, i nostri dubbi sono poca cosa.

Abbiamo attaccato la rete elettrica, perché senza di essa, oggi, questa civiltà crolla. Non desideriamo un ritorno ad un qualche tempo passato. Non abbiamo illusioni sul fatto che delle civiltà sono state costruite senza elettricità. Tutto quello che sappiamo è che questa ne è diventata troppo dipendente per poterne fare a meno. E che questo è uno dei suoi punti deboli. E anche se ne siamo figli/e, e non può essere diversamente, lottiamo per uccidere i germi che essa ha potuto lasciare in noi. Lottiamo contro il nostro addomesticamento, contro la nostra sottomissione alle norme, contro le nostre vigliaccherie e il nostro amore per la sicurezza.

Ma utilizziamo alcuni degli strumenti che essa ci procura. Perché non è più possibile comunicare fra ribelli facendo dei segnali di fumo, e ci interessa ancora mettere delle parole sui nostri atti, che possano toccare quelli/e che vogliono leggerle, e che anch’esse possano essere una componente non trascurabile dei nostri attacchi contro la docilità, le persone che la creano e quelle che la difendono. Numerosi sono gli atti di distruzione, attorno a noi, in questi ultimi tempi.

Grazie alle mani coraggiose che rifuitano di essere confinate, di questi tempi in cui perfino una parte del movimento «radicale» vorrebbe vederci rinchiusi in casa, perché è più importante essere «safe» che cercare di essere liberi/e.

Grazie a quelle e quelli per cui scrivere ha un senso, perché è necassario condividere le nostre riflessioni, affinché i nostri atti risuonino con le intenzioni che ci animano. Perché il fatto di leggere dei testi di chiamata all’attaco, delle analisi taglienti o delle rivendicazioni partecipa a modellare le nostre idee, a concepire delle nuove strategie per attaccare. Questo è d’altronde il motivo per cui desideriamo inscrivere il nostro attacco nella chiamata al conflitto lanciata dal testo A maggio fai quel che ti piace: una chiamata al conflitto, di cui abbiamo fatto nostre le numerose questioni, alle quali abbiamo voluto, con il notro attacco, portare degli elementi di risposta. Perché, se ne dica quel che si vuole, questi scritti escono dall’orrore dematerializzato di Internet, per nutrire dibattiti, riflessioni, e dare forza ai/alle viventi.

Si fanno dei tentativi, a volte senza nemmeno sapere esattamente quello che si va a toccare. La sola cosa che sappiamo è che, attraverso i nostri atti, le cose non resteranno intatte.

Abbiamo scelto di attaccare un trasformatore elettrico, senza sapere quali danni avremmo provocato, ma sperando in dei bei archi elettrici, molto fumo e qualche luce in meno, per lasciare il suo spazio alla luna piena. Non abbiamo bisogno d’altro per rischiararci e le luci artificiali sono un oltraggio alla bellezza della notte.

Mentre ci avvicinavamo al sito, nella zona di Aubenas, portavamo in noi il ricordo immaginario di tutte le anime tormentate che si sono ribellate contro le civiltà che cercavano di distruggere le loro vite selvagge. Abbiamo acceso sei incendi, principalmente su cavi riuniti sotto delle lastre di cemento, rumorose ma facili da sollevare. Abbiamo fatto attenzione a non toccare le strutture metalliche, e a parte un leggero disagio, una sensazione di ronzio dentro il cranio, non ci è successo nulla di grave a passeggiare in questo punto d’arrivo di tre linee ad alta tensione. Quando abbiamo lasciato il sito, i nostri corpi tesi per l’adrenalina e dei sorrisi sotto i copricollo, i fuochi avevano preso. Sfortunatamente, le luci artificiali che ci circondavano non si sono spente. Non sapremo probabilmente mai quali sono i danni causati alla rete elettrica, perché i media non ne hanno parlato. Una ragione in più per farlo noi, per non lasciare loro l’opportunità di passare sotto silenzio il nostro operato. Presumubilmente, né la città, né le valli attorno hanno subito danni degni di nota. Tanto peggio. Si trattava di un tentativo. Il solo modo concreto per sapere dov’è opportuno attaccare, è provare ovunque. Non dubitiamo del fatto che ci saranno altri tentativi.

I nostri cuori bruciano dalla voglia di spegnere una volta per tutte questo mostro-macchina. Perché l’odio ed il disgusto per la massa umana civilizzata trasudano da tutti i pori delle nostre pelli. Perché le sole luci che ci piacciono, di notte, sono quelle delle fiamme e dei riflessi della luna.

Dei/delle Rampolli/e del Disastro

 

[Traduzione: Insuscettibile di ravvedimento]

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