Avendo appreso che il 9 gennaio si svolgerà a Parigi un dibattito sulla giustizia, vorrei provare a parteciparvi per lettera, anche se non ho alcuna informazione sul tenore del dibattito visto che mi sono stati rifiutati sia i permessi di visita che i contatti telefonici.
Il tema della giustizia pone una moltitudine di questioni, quella sulla repressione, quella dell’autorità, della reclusione, del mantenimento della classe dominante e dell’ordine, della sottomissione e della ribellione, evidentemente legato a quello della difesa e dell’attacco, della rassegnazione o della dignità, dell’inazione o della vendetta.
Questa scelta personale appartiene ben inteso ad ogni individuo ed io non mi voglio certo presentare come colui che impartisce lezioni a qualcuno, né come martire o eroe che certo non sono. Non parlerò che della mia propria scelta che non è motivata da un dovere rivoluzionario fantasma, ma dalla volontà, dalla necessità che mi è propria di sentirmi più libero, più degno, più vivo di quanto non vorrebbero i miei carcerieri.
Il mio bagaglio intellettuale e teorico è relativamente limitato, ma la mia vita rassomiglia piuttosto a quella di una canaglia che a quella di un universitario, misuro a gran passi i corridoi dei tribunali dall’età di tredici anni e quelli delle prigioni dall’età di 17.
Queste osservazioni sono dunque il frutto più della mia esperienza personale, molto soggettiva, che quelle di uno che ha una certa postura ideologica prestabilita. Anche se oggi mi riconosco nell’anarchia non ne avevo la minima conoscenza quando, ancora bambino, ho conosciuto la mia prima detenzione con un fermo di polizia.
Fin da giovane, sono sempre stato contro le ingiustizie, contro coloro che le permettono e possiedono tutto, e contro coloro che li proteggono, ed è così che ho appreso a spogliare i primi e ad attaccare i secondi. Tra noi canaglie abbiamo un proverbio: 9 volte per te e una volta per gli sbirri. (?) È inevitabile, nella guerra sociale, asimmetrica per definizione, il minimo choc frontale ci sarà fatale perché loro sono i più forti.
La prima volta che mi hanno beccato ero spaventato, i miei amici erano riusciti a scappare ed io mi sono ritrovato da solo bloccato in un vicolo cieco, ho provato a battermi meglio che potevo contro gli sbirri che mi ostruivano l’unico passaggio verso la libertà, ma come prevedibile mi hanno distrutto e poi arrestato.
Una volta arrivato in cella mi sono sentito come un giovane animale selvaggio che è stato messo in gabbia dopo essere stato picchiato. Penso che fu una reazione incosciente e naturale, ho smesso di mordere e mi sono sottomesso. Sono dovuto entrare nella loro logica, quanto mai civilizzata, mi sono dovuto dichiarare innocente, mi sono dovuto scusare, io che non avevo mai sentito nessun senso di colpa, bisognava che, spinto dalla paura, mi scusassi e che mi pentissi con ipocrisia.
C’è stato bisogno che rinnegassi me stesso, la mia integrità libera e selvaggia di fronte alla loro divina missione civilizzatrice. Dunque quel giorno là ho iniziato a non riconoscermi più, come direbbero i droghieri del marketing dell’insurrezione che vorrebbero farci credere che questa scelta sia motivata da una tattica riflettuta a lungo, al fine di mascherare il loro terrore della repressione.
La paura, in una simile situazione, è pertanto qualcosa di naturale, bisogna accettarla, riconoscerla al fine di superarla e di rimettersi a ragionare in maniera onesta.
Non ci sono eroi, se ce ne fossero non li vorremmo. Quel giorno e quelli che sono succeduti mi sono sentito sempre più male. Avevo vergogna, non di aver avuto paura, ma di aver perso la mia dignità. Sentivo nel profondo di me stesso che avevo negato la mia natura libera e selvaggia per sottometterla al diktat della società giudiziaria, per sottometterla a questa società piena di ingiustizie che non comprendevo e che odiavo.
Da quando ho preso coscienza di ciò mi sono giurato di non sottomettermi più, di non lasciarmi giudicare e domare come una belva ammansita, servile che fa da attrazione nel circo delle loro sale di udienza.
Da quando i denti di latte hanno lasciato spazio ai canini ben aguzzi nelle celle della prigione e dei quartieri di isolamento rendo colpo per colpo. Per un dente una mascella!
Al tribunale ho sempre anche paura ma trasformando la paura in odio ho trovato la forza di non sottomettermi e di non lasciarmi giudicare.
Sono i più forti, si, ma non è per questo che concederò loro una qualche legittimità né accettando la loro logica di innocenza e colpevolezza.
Io non adotterò la loro logica repressiva per farne una logica vittimistica dichiarandomi innocente.
Sempre più si tratta di comprendere che questa logica infierirà in termini di solidarietà . Che tipo di solidarietà vogliamo? Su quali basi e con chi?
Se mi dichiaro innocente e soprattutto se i compagni e le compagne fuori organizzano la solidarietà intorno alla mia innocenza e non per il semplice fatto che sono anarchico allora a chi parliamo? Ai democratici? Ai partigiani di una repubblica più giusta e più veritiera di cui la giustizia popolare rinchiuderà con cognizione di causa? Al potere? Ah si, ma non lo stesso!…
E allora quali saranno le basi di questa solidarietà consenziente? Cosa resterà come sostanza – senza osare neanche parlare di potenziale – sovversiva rivoluzionaria? Quelle stesse persone, chiamate solo dal consenso solidale perché innocente, lo sarebbero stati in caso di una colpevolezza accertata? E allora cosa ci resta come prospettiva offensiva? Gioiremo per il recupero politico, chiamandolo persino, attraverso il consenso verso i valori umani e repubblicani?
Le risposte a queste domande semplici sono evidenti. Con un minimo di logica e di onestà si può di già considerarle come affermazioni. E in più sono delle concezioni storiche verificate.
« Come uscire dal dilemma? In maniera semplice partendo sempre dal fatto che per noi il fatto tecnico è secondario e che se i compagni e le compagne sono accusati, imprigionati e in certe occasioni anche giustiziati questo avviene solo per il fatto che sono anarchici, fatta astrazione del fatto oggettivo che costituisce l’elemento del dibattito della giustizia, ma che a noi non interessa, in quanto rivoluzionari, che in maniera marginale.»
Alfredo Bonanno, Note su Sacco e Vanzetti, 1989
Così se la scelta di dichiararsi innocenti o quella di rifiutare di essere giudicati appartiene all’individuo per delle ragioni che gli sono proprie penso al contrario che la comunicazione relativa alla questione giudiziaria debba articolarsi, al minimo intorno a questo semplice principio.
Spero di aver potuto apportare qualcosa al dibattito e che mi farete pervenire ciò che ne è venuto fuori.
Sempre solidale, ma soprattutto complice
Damien
(ricevuto all’inizio di gennaio 2017)
[tradotto da Croce Nera Anarchica]