Cosa sono?
Vi si seguono degli ordini, piani pensati da altri o da macchine, non vi si sceglie nè perchè, nè come nè con chi si fa questo o quello. Altri indizi: a volte vi si perde la salute e vi si perde il proprio tempo, per poi avere comunque altrettanti problemi per sopravvivere in un mondo governato dalle relazioni commerciali.
Cosa sono? Il lavoro, naturalmente!
Che sia legalizzato o no, che tu sia un lavoratore autonomo o un’impresa familiare, il lavoro è sfruttamento!
Quante persone cadono nelle grinfie della legge o finiscono in prigione, punite per non aver voluto o potuto sottomettersi alle regole dello sfruttamento stabilite dalla legge? E una volta rinchiuso/a, c’è ancora bisogno di soldi per vivere un po’ più decentemente, e per mangiare qualcosa di diverso dal cibo che ti viene dato.
Lo Stato, e le società che gestiscono le prigioni traggono profitto facendo lavorare i detenuti/e per 2 euro all’ora, per svolgere alcuni compiti necessari al funzionamento della prigione. Lo Stato sa anche che sta costituendo una forza lavoro basata sullo sfruttamento dei/le prigionieri/e, considerati/e come dei/le paria dalla stragrande maggioranza dei suoi sudditi-cittadini. E questo la rende molto interessante agli occhi di qualsiasi imprenditore sociale che voglia pagare salari più bassi (le aziende private dovrebbero pagare il 45% del salario minimo all’ora e il cottimo è molto usato), avere una forza lavoro soggetta al ritmo del suo portafoglio ordini e trovare un modo per far svolgere compiti particolarmente gravosi.
Questo evita delocalizzazioni e fallimenti, dicono gli economisti. È la riabilitazione, dicono le anime belle della sinistra; la prigione deve offrire una seconda possibilità, la possibilità di accettare la propria condizione di sfruttato/a.
Le riforme non servono a nulla, sono lo sfruttamento e la reclusione che vogliamo distruggere. Perché si aprano altri orizzonti!
Come contributo a questo vasto progetto abbiamo visitato 3 aziende tra le centinaia che sfruttano i/le prigionieri/e:
Un negozio della marca Séphora al 27 avenue du Château a Vincennes (Val de Marne). Nella notte tra il 27 e il 28 dicembre, le serrature del locale sono state bloccate, il sistema di apertura automatica della porta d’ingresso parzialmente sabotato e le sue vetrine sono state infrante. Sulla sua facciata abbiamo scritto con la vernice spray “Sephora sfrutta i/le detenuti/e”, “Abbasso il lavoro e la prigione” e “Fuoco alle prigioni”. Sephora è un’azienda del gruppo LVMH, che, come moltissime altre, preferisce non far sapere che i suoi cosmetici sono in parte derivati dal lavoro svolto dai/le detenuti/e.
Altri, invece, se ne vantano. Questo è il caso del marchio di abbigliamento “upcycled” “Les Récupérables” situato all’11 di rue des Gardes a Parigi 18e. Il sito web del marchio e quello dell’ATIGIP (1) mostrano che l’azienda subappalta parte della sua produzione a laboratori gestiti dall’amministrazione carceraria. La sua fondatrice Anais Dautais Warmel ama presentarsi come una “stilista moderna ed eco-responsabile”. Nella notte tra il 26 e il 27 dicembre, sulla vetrina del suo negozio abbiamo scritto “Collaboratrice delle prigioni”, “Sfruttatore” e “Libertà per tutte”.
Altri ne fano un argomento di vendita, esponendo con orgoglio l’etichetta PEP’S (2) sulle vetrine, come il negozio “Pinatas di cartapesta artigianali” situato al 25 di rue des Vinaigriers a Parigi 10e. Elena Farah, la sua creatrice e manager, parla dei molti anni trascorsi a far produrre a cottimo nei laboratori bui delle carceri come la sua “esperienza umana più interessante e arricchente”. Ebbene, la mattina del 20 dicembre ha trovato la vetrina del suo negozio ridotta in frantumi, accompagnata dalla scritta: “La Pinata sfrutta i/le prigionieri/e”.
(1) L’Agence du Travail d’Intérêt Général et de l’Insertion Professionnelle (L’Agenzia per le attività di interesse generale e l’inserimento professionale NdT), che organizza i diversi modi in cui viene svolto il lavoro delle persone sottomesse a obblighi di giustizia: dai laboratori gestiti dall’amministrazione penitenziaria che producono a contratto, alle concessioni (laboratori aperti da imprese private direttamente nelle prigioni), alle offerte di TIG (Travaux d’intérêt général – Attività di interesse generale) che il ministero vorrebbe sviluppare in modo massiccio.
(2) Produits En Prison.s (Prodotti in prigione), un’etichetta creata recentemente “per far conoscere e valorizzare il lavoro svolto nelle carceri”.
[Traduzione: Inferno Urbano (un po’ modificata)]